MOOC: puro nutrimento per la mente

“La mente è come un paracadute. Funziona solo se si apre” (cit. Albert Einstein)

La necessità di continuare quel processo di apprendimento no-stop e a 360 gradi mi ha fatto imbattere, su suggerimento di un amico, sul sito di Coursera. Coursera è una piattaforma tecnologica che opera nella formazione a distanza offrendo gratuitamente, previa veloce registrazione, una vasta gamma di corsi online che contemplano discipline umanistiche, scientifiche, sociali ed economiche. I corsi sono erogati, in questo caso, dalla Stanford University, Princeton University, l’Università del Michigan e dall’Università della Pennsylvania. Altre prestigiose università si sono unite creando simili piattaforme basate sempre sulla medesima struttura.

I titoli dei corsi variano da The Power of Macroeconomics: Economic Principle in the Real World, Health For All Through Primary Health Care, Computer Architecture, The Language of Holliwood: Storytelling, Sound and Color, The Beatles Music History, e chi ne ha più ne metta.  La lingua veicolare e più utilizzata è l’inglese ma è altresì possbile trovare corsi in francese, spagnolo, cinese (il che dona al tutto un’intelligente possibilità di utilizzo-apprendimento di una lingua straniera) e anche qualcosina in italiano.

L’idea fondante è il massive open online course ossia corsi pensati per una formazione a distanza che coinvolga il maggior numero di utenti possibili. I partecipanti ai corsi provengono da varie aree geografiche e usufruiscono dei contenuti del corso via web. Alla fine del corso viene rilasciato una sorta di certificato ovviamente dopo aver accertato il livello di apprendimento dell’allievo. Le modalità di verifica pur differendo da corso a corso mantengono un imprinting americano-anglosassone: cioè molti test in itinere, relazioni, confronto interattivo con altri utenti, forum diretto con il docente.

Trovo questo strumento un’ottima idea per continuare quel processo di apprendimento che tante volte apaticamente termina in parallelo al percorso universitario ma anche una sorta di incentivo a chi ancora studia e vuole allargare o approfondire aspetti che rigidi corsi di laurea non permettono.

Ecco di seguito l’indicazione dei maggiori siti:

Coursera:  https://www.coursera.org

edX: https://www.edx.org/

Khan Academy: https://www.khanacademy.org/

Udacity: https://www.udacity.com/

1994 ma perché?

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Nel 1994 la nazionale italiana aveva la maglia di un blu bellissimo e gli scarpini dei calciatori erano ancora tutti neri. Nel 1994 avevamo ancora Roberto Baggio e sulle strade del Giro d’Italia esplodeva un giovane scalatore che indossava la maglia della Carrera: il suo nome era Marco Pantani. Oltreoceano un certo Hakeem Olajuwon guidava gli Houston Rockets alla conquista del loro primo anello NBA. 

Nel 1994 c’erano ancora fondate speranze di arrivare a un accordo di pace in Palestina. In quell’anno, Francis Fukuyama era ancora convinto di aver scritto un libro che avrebbe segnato gli anni a venire piuttosto che un testo citato più che altro come esempio negativo. Nello stesso anno gli italiani erano pressoché univoci nel sostenere la magistratura e nel dare del ladro a colui che, nel ruolo di premier, aveva indissolubilmente segnato gli anni precedenti. Dovette scappare all’estero.

Ecco, perché caro 1994 ora nel 2013, di tutte queste cose, dobbiamo proprio rivivere il remake della nascita di Forza Italia. Non c’era di meglio? Ridacci Robi Baggio.

L’altro mondo

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“Datemi fiducia. Fidatevi di me. Avete visto come ho governato bene? Come ho salvaguardato il vostro benessere? Come sto mettendo in riga gli europei recalcitranti?”. Il risultato di ieri è stato un consenso, un plebiscito (per i tempi che corrono) in favore di Angela Merkel.

Affluenza in leggero aumento per la Germania che torna alle urne, superato il 71% di elettori votanti. Miglior risultato storico per la Cdu che avrà 311 rappresentanti in parlamento, sfiorata la maggioranza assoluta dei 316 seggi. “Angie” affianca una certa signora Thatcher con tre mandati consecutivi, chapeau.

Una campagna elettorale sobria, da manager come ci suggerisce Rusconi su “La Stampa”. Capacità di serrare le linee del partito, visione di gioco che porta nel programma Merkeliano il concetto di giustizia sociale e il rapporto precarietà-lavoro. Forza nel raccogliere voti oltre il confine del partito, il riferimento è verso gli alleati storici, i liberali, che non raggiungono lo sbarramento. La Merkel ha dimostrato cinismo nel mantenere toni sobri, senza inventare argomenti nuovi o slogan da populismo dell’ultima ora. Convegni e discorsi improntati su certezze, linee guida e necessità di dimostrare all’Eurozona che esiste uno Stato forte con un popolo convinto di essere il motore del continente.

Superano lo sbarramento i verdi, 8,3%, incapaci di promuovere proposte alternative e aggiornate dopo la dichiarazione della Merkel di fermare l’attività nucleare nel paese. Sotto tono la prova di Peer Steinbrueck, uomo impostato che porta l’Spd sotto il 26%, costretto a difendere un programma più a sinistra di lui e obbligato a competere contro un premier molto simile nei modi ma già vincente. Anche Linke rimane sugli scudi, fermo a 8,5 punti percentuali; si ha come l’idea che la sinistra laddove si arrocchi sulle proprie fondamenta senza buttare lo sguardo oltre il muro, non riesco a rappresentare un opzione di spessore.

Ora si apre l’ultimo capitolo di queste elezioni, formare una maggioranza è l’ultimo passo per dare vita al nuovo esecutivo. Il parlamento vede un partito moderato e tre forze a cavallo tra progressismo e sinistra. Questo è un nuovo dato che gli schieramenti dovranno analizzare nel prossimo futuro. Per quanto concerne il governo, l’Spd, ha già dichiarato di non voler opporre un muro al partito moderato, il formarsi della coalizione di opposizione rosso-rosso-verde sembra improbabile. Si andrà verso un accordo, verso intenti comuni tra i due partiti maggiori (76% dei voti totali).

Si ha come l’impressione che il nuovo governo non lavorerà per mettere banderine sulle varie azioni dell’esecutivo. L’operato sarà il più possibile in simbiosi. Forse, è proprio per questo che loro sono quelli che se la passano meglio in tutta Europa. Esistono discussioni (vedi Grecia), problemi europei (politica economica, estera etc), ciò che va semplicemente constatato è la capacità di un mondo, quello tedesco, forte, sicuro e capace di percorrere la propria strada. Giusta o sbagliata, la marcia della Germania va avanti nonostante tutto.  Merita per questo, un secondo chapeau.

Moratti, l’ultimo don Chisciotte

Massimo Moratti che vende l’Inter al magnate indonesiano Erick Thohir è il segnale che l’età dell’innocenza è definitivamente perduta. Forse arriva persino in ritardo, ma parliamoci chiaro: è l’ultimo pezzo di un calcio che se ne va, e che guarderemo solo su youtube. Non è una questione di meglio o peggio, ma di qualcosa che non sarà più come prima, e che spaventa anche un po’.

A Moratti non serviva l’Inter per essere quel che è, e l’Inter non è ovviamente stata quello che il Milan è stato per Berlusconi (un viatico per la scalata politica) o la Juve per gli Agnelli (una tessera del puzzle nazionalpopolare, insieme a Fiat e Ferrari). Nel bene e nel male, e ognuno farà il suo bilancio, Moratti è stato parte dell’Inter e di milioni di tifosi. Ma è stato anche di più: un’icona, un don Chisciotte, un romantico, un idealista. Non credo sia un caso che la sua parabola sia coincisa con gli anni Novanta e Duemila: anni di grandi speranze e grandi delusioni, anni fragili poiché privi delle certezze rassicuranti del passato, volati dallo champagne millenario alle paure delle crisi e delle guerre.

Moratti nell’Inter ha messo tutto se stesso, limiti inclusi. Prometteva di vincere, ma in fondo gli interisti si accontentavano di sognare. E’ stato l’ultimo vero signore di un’élite che non c’è più, stretta tra il cafonismo parvenu dei nuovi padroni e le ultime satrapie del pallone. Ora passa la mano, e tutti ci risvegliamo bruscamente. Non ci sarà più nessun argine verso la contaminazione globale, e magari è anche giusto così: da altre parti ci sono arrivati da tempo, e in fondo basta un gol nel derby per far dimenticare il passaporto dei quattrini. Ma senza don Chisciotte non ci saranno più nemmeno i mulini a vento, e chi non ha mai sognato di sfidarne uno non sa cosa s’è perso.

Road to Cuba..1962. Siria e Cuba, due casi simili?

L’evoluzione degli eventi in Siria non permette di fare previsioni con un reale fondamento; tuttavia, provando a riflettere, qualche conclusione, forse altrettanto azzardata, si può trarre. In un precedente articolo avevo stigmatizzato le possibilità di riuscita di un intervento “limitato” alla sola distruzione delle armi chimiche da parte statunitense (e della coalizione che eventualmente li sosterrà). Da un lato, difatti, non si capisce quale sia la ratio politica di punire Assad per aver sorpassato la ormai celeberrima “linea rossa” senza spingersi in un regime change (e quindi la cacciata del dittatore): si punirebbe l’(eventuale) uso di armi chimiche, ma Assad resterebbe al comando dell’esercito e potrebbe sfruttare un effetto rally around the flag che lo rafforzerebbe specie tra quelle minoranze che dipendono dall’attuale regime per sopravvivere. Dall’altro lato la Russia, memore del caso libico (si ricorderà che da una no fly zone approvata in seno al Consiglio di Sicurezza si arrivò al bombardamento delle postazioni del regime invocando la cosiddetta Responsibility to Protect, R2P), non solo non concederebbe il proprio assenso a una qualsiasi forma di attacco al regime siriano, ma recentemente, per bocca del presidente Putin, si renderebbe disponibile a difendere la Siria da qualsiasi offensiva di Washington.

Questo secondo punto ci porta ad un parallelo probabilmente molto azzardato, ma che non risulta poi improponibile. La crisi cubana del 1962. È superfluo soffermarsi sulle enormi differenze relative al contesto politico nelle quali si innestano le situazioni di Damasco e L’Avana; mondi diversi, regimi diversi, diversa concezione di potenza, diversa disponibilità all’uso di armi di distruzione di massa etc. Non serve andare oltre. Ciò nonostante, appare curioso un parallelismo. Toccherà agli Stati Uniti – nel caso siriano al Congresso, nel caso cubano al gabinetto di J.F. Kennedy – andare a scoprire le carte russe, ossia testare la disponibilità alla difesa di un alleato in un contesto ancora chiave per gli equilibri politici mondiali, il Medio Oriente. Kennedy, utilizzando una metafora del poker, decise di “vedere” il gioco russo e scoprì il bluff di Chruščёv, costringendolo ad una rovinosa sconfitta politica. La storia si ripete: cosa farà la Russia in caso di attacco?

Questa domanda nasconde un trabocchetto; perché sottintende che, qualora gli Stati Uniti attacchino, la Russia abbia due opzioni, una vincente ed una perdente. Quella vincente, cioè la dimostrazione che Mosca non sta bluffando, implicherebbe rimanere coerenti all’impegno difensivo e rispondere agli USA; quella perdente implicherebbe perdere la faccia davanti alla società internazionale e perdere il piatto a causa del bluff.

Io non credo che si possa utilizzare un dualismo vincente/perdente in questo caso per due motivi. Uno di ordine diplomatico: Putin e il ministro degli esteri russi, Lavrov, si sono mossi con astuzia e prudenza – quella “positiva prudenza” che riconosc(ev)o ad Obama prima del caso siriano – facendosi percepire sì come una potenza dello status quo, quindi desiderosa di conservare il regime brutale di Assad, ma anche come uno Stato disponibile ad intavolare una trattativa politica per cercare di porre un limite all’escalation di violenza in Siria. Le ultime dichiarazioni di Lavrov su una disponibilità di Mosca al controllo delle armi chimiche di Damasco si muove in questa direzione. Vere o meno, importa relativamente dal punto di vista russo. Putin ha rimesso ad Obama il compito di scartare questa opzione politica e concentrarsi sull’azione militare. Il secondo motivo è di ordine politico: in caso di attacco la Russia, avanzando ipotesi di soluzioni politiche concernenti  l’uso di armi chimiche da parte di Assad, ha lasciato gli Stati Uniti di fronte alla possibilità di scoprire il bluff, ma solo agendo unilateralmente ed in violazione del diritto internazionale (eccezion fatta per un’eventuale invocazione del concetto di Responsibility to Protect, una norma internazionale che, secondo Charles Landow su Foreign Policy, necessità di revisioni radicali per la sua scarsa efficacia).

In conclusione, siamo  di nuovo davanti ad una partita di poker, giocata come nel 1961 a Cuba? A mio avviso, no. Questo perché se Putin non bluffa le conseguenze sarebbero catastrofiche e la responsabilità ricadrebbe in gran parte sugli Stati Uniti; se bluffa, tuttavia, non ci sarebbe vittoria per gli Stati Uniti, che sarebbero accusati di “neoimperialismo” e di violazione del diritto internazionale. Un diritto valevole solo in determinate circostanze, ma malleabile quando gli interessi statunitensi sono in gioco (si prenda il caso dell’aereo presidenziale di Evo Morales perquisito in spregio ad ogni norma di inviolabilità della sovranità): un’accusa forse ingenerosa, ma con fondamenta storiche abbastanza solide.

La strategia degli Stati Uniti sarebbe quindi doppiamente perdente in caso di attacco; in caso contrario, scegliendo di non attaccare, Obama forse “perderebbe la faccia” prestando il fianco alle accuse di debolezza ed indecisione da parte dei conservatori (a cui però Obama ha furbescamente lasciato l’onere di schierarsi con il voto al Congresso). Ma è preferibile una sconfitta morale e una parziale sconfitta diplomatica che testare la propria potenza militare in una polveriera che tanto assomiglia a quella dei Balcani di cento anni fa.

Partiamo dalle parole

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C’è stato un tacito accordo tra gli autori di questo blog.

Imu e Berlusconi sono due cavalli da battaglia che preferiamo evitare.

Non li trattiamo perché sono banali, non li trattiamo perché siamo stanchi, non li trattiamo perché esiste altro.

Questo post sarà particolare. Proverò a dare un significato diverso ad alcune parole. Parole attuali, parole dalle quali partire.

Giovane

Il giovane ha diciotto anni e può scegliere di continuare gli studi. Tre anni di università non sembrano e non sono troppo lunghi o impegnativi. Il giovane può non avere voglia. Lavori pratici e manuali spesso non sono presi in considerazione. Il giovane sente parlare di crisi, di guerre, di rivoluzioni e crack finanziari mentre gioca, twitta o condivide pensieri su facebook. Il giovane spesso non ha progetti. Quando esistono i progetti, è facile che questi vengano alterati da fattori esterni. Il giovane a 30 anni non è adulto. Il giovane fa l’aperitivo, compra su ebay prodotti del terzo mondo e magari può anche essere chiuso verso chi non appartiene alla sua classe sociale o al suo paese.

Ogni giovane è un rebus.

Adulto

Per adulto immagino una seconda generazione. Penso al posto pubblico garantito e all’iniziativa privata con la quale cavalcare l’onda economica tra fine anni 80 e anni 90. Adulto è l’anziano capace di costruire una casa di proprietà. Adulto è una pensione da girare al nipote per studiare e vivere lontano. Adulto può anche essere una garanzia, magari per un mutuo. Adulto è la fatica di trent’anni lavorativi e l’incubo della cassa integrazione. Adulto è la ricerca di esperienza senza crearne da zero. Adulto è mezzo secolo senza internet, wifi e libertà di circolazione.

Qui non si parla di rebus. Da tanti punti, si è riusciti a tracciare un disegno e si è fatta una vita.

Opportunità

Mi piace come parola. Significa impegno, dedizione, sacrificio, ricerca. Cercare una, due, tre, mille volte per avere una possibilità. Può essere interpretata come una scelta o come un sogno da raggiungere. L’opportunità è probabilità. Esistono milioni di opportunità e tutte differenti tra loro. Il problema è che l opportunità va desiderata. L’opportunità non si crea dal nulla.

L’opportunità è una chiave di lettura oppure una linea da tracciare per creare un disegno.

Lavoro

Questo manca perché parliamo di imu e condanne senza pensare al futuro.

Dovrebbe però significare sicurezza, studio, famiglia, sfogo, stabilità, certezza, felicità e articolo 1 della Costituzione.

Magari presto si tornerà ad affrontare i problemi veri del Paese.

Ancora tutti entusiasti per il multipolarismo?

Doverosa premessa: non ho dubbi sul valore della responsibility to protect e sulla sua potenziale applicabilità anche al caso siriano. Enormi dibattiti si possono aprire sull’arbitrarietà di questo concetto ma se la R2P valeva nei precedenti casi bosniaco e kosovaro nonché nel più recente caso libico non vedo alcun motivo per cui essa non possa essere richiamata nel caso della Siria. Ciononostante condivido le preoccupazioni che Davide ben illustrava nel suo post. Il rischio di intraprendere un’azione per evitare di perdere la faccia (in primis quella di Obama che aveva fissato la linea rossa) o, peggio ancora, senza avere idea precisa di cosa si voglia ottenere mi sembra qui molto alto. Ben più alto che in Libia dove, in ultimo, il regime change diviene l’obiettivo finale e per ottenerlo si finisce per appoggiare dei ribelli (rischio calcolato?) la cui composizione era oscura poco meno degli attuali insorti siriani.
Ecco quindi che la volontà di intervenire in Siria in modo limitato nel tempo e nelle modalità di azione finisce col tradursi, all’atto pratico, nell’appaltare la gestione del post-conflitto ad attori quali Arabia Saudita, Iran, Qatar, Turchia, Israele etc. Attori che, verosimilmente, si giocherebbero in questa partita buona parte del loro ruolo futuro. Quali scenari apre questa possibilità? Si verificherà una transizione di regime oppure scoppierà un più ampio conflitto capace di coinvolgere tutta l’area? Nessuno può prevederlo con certezza, questo è il dato di fatto. La domanda che mi pongo di conseguenza io è la seguente: l’impossibilità di prevedere lo scenario deriva forse dal processo di regionalizzazione della sicurezza o, in altra formula, di transizione verso una qualche forma di multipolarismo?
Se questa è la strada non sarà mica che nell’enfatizzare il valore di un mondo più multipolare certa letteratura accademica (e di conseguenza anche molte proposte di ordine politico) abbia sottostimato il fatto che un ordine multipolare significhi, all’atto pratico, anche “appaltare la gestione sul campo” ad attori di cui non possiamo prevedere completamente le mosse. Detto in altre parole, l’incertezza sul post-conflitto in Siria è particolarmente forte perché si ha la sensazione che in futuro la tendenza sarà sempre più questa? Una risposta precisa al momento non c’è ma di indizi ne intravedo diversi.
In conclusione non vorrei che, soprattutto in Europa, l’entusiasmo nel dibattito sulla multilateralità o la multipolarità abbia un po’ oscurato che cosa questo comporti in termini di assunzione di responsabilità e di risvolti in termini di sicurezza. Con la Siria alcune di queste problematiche, finora tenute un po’ in sordina, emergono drammaticamente.
Robert Kagan forse sarà felice perché con il venire meno dell’ombrello americano il bluff europeo si rivela completamente; ciononostante gli interrogativi rimangono tutti sul campo.

La polveriera della Siria

Le contestazioni al Presidente siriano Bashar Al-Assad, esplose in contemporanea con altri Stati mediorientali in quella che è stata definita la Primavera Araba, si sono tramutate in una guerra civile sanguinaria con centinaia di migliaia di vittime. Prima della Siria il precedente libico, nel quale una rivolta armata aveva fatto seguito alle proteste pacifiche contro Gheddafi, era stato affrontato con un certo piglio dai “grandi del mondo”: la risoluzione ONU, votata con le astensioni di Russia e Cina, aveva previsto una no-fly zone per contrastare il Colonnello. Una volta sul campo però, l’estensione della missione si è allargata a dismisura grazie alla cosiddetta responsability to protect (R2P): si dovevano proteggere i civili dalla rappresaglia dei fedeli di Gheddafi per cui l’aviazione della coalizione intervenuta (dalla Francia alla Gran Bretagna, passando per i riluttanti statunitensi, l’Italia, il Qatar, la Svezia e altri) ha iniziato a bombardare le postazione militari libiche. La Russia né è uscita scottata da questa sconfitta diplomatica: voleva farsi percepire come non insensibile davanti alle richieste dei ribelli, senza però destabilizzare Gheddafi. Una volta fornito il via libera, però, non ha saputo arrestare la coalizione.

In Siria, tuttavia, questo scenario è parso sin da subito improbabile.  Certo vi era una similitudine con il caso libico e questa concerneva la lotta per il potere.  Era (ed è) una lotta fratricida, nella quale le fazioni opposte riconoscevano reciprocamente che non vi sarebbe stato (e non vi sarà) altro esito se non la sconfitta altrui con ogni mezzo possibile. I ribelli siriani non avrebbero avuto scampo una volta trovato un ipotetico ed implausibile accordo politico; lo stesso si poteva dire per gli alawiti (e probabilmente per i cristiani e i vari sostenitori del regime) in caso di caduta di Assad. Insomma, un accordo era ed è impossibile senza che una delle due parti non venga sconfitta sul campo di battaglia, come avvenuto in Libia. Tuttavia in Siria, sin dai primi scontri si era compreso come dietro i ribelli, finanziati lautamente dai petroldollari sunniti, vi fossero organizzazioni legate al terrorismo islamico, se non proprio Al-Qaeda. Inoltre, Damasco rimane ad oggi uno dei pochissimi alleati iraniani nella zona, assieme al gruppo guidato da Nasrallah, ossia Hezbollah, il partito di Dio. Non va poi dimenticato il potere della Storia, nel senso che a pochi mesi di distanza dalla caduta di Gheddafi, la Russia è intenzionata a non ripetere il proprio errore e lasciare mano libera agli Stati Uniti, attraverso la legittimità formale garantita dall’ONU.

Un intervento “stile Libia” è quindi non solo improbabile, ma anche pericoloso non solo per la Siria, ma anche per il Libano – di cui Hezbollah controlla saldamente una parte – per la Turchia (non dimentichiamoci che nel nord sono presenti minoranze curde), l’Iran  per motivi che esulano dal topic dell’articolo ed Israele.

Rimane da capire se sia possibile intervenire per punire Assad, dopo le accuse di aver usato gas Sarin contro i civili. Diamo le accuse per vere(anche se, sempre la storia insegna, gli Stati Uniti hanno mentito già una volta e in maniera spudorata all’ONU nel 2003, quindi cortesia internazionale vorrebbe che queste prove siano mostrate);  e diamo per scontato che gli Stati Uniti siano legittimati a continuare la logica clintoniana della nazione “poliziotto buono” preoccupata di mantenere la legalità internazionale. Ma a quale prezzo intervenire? Obama, di cui ho difeso fino alla settimana scorsa alcune scelte di politica estera,  aveva usato la sua migliore qualità di fronte alla crisi: la prudenza. Lontano dagli eccessi interventistici post Guerra Fredda, aveva ereditato guerre non sue e, se non per mantenere la credibilità USA in Medio Oriente e in Asia, le aveva proseguite in sordina, ponendo fine per lo meno all’impresa più scriteriata, l’Iraq (un non-Stato – per non volerlo chiamare “fallito”, come la Somalia – in cui Al-Maliki controlla poco o nulla, se non le redini del potere formale). Un’uscita infelice come quella della “linea rossa” da non oltrepassare da Assad ha fatto sì che gli Stati Uniti diventassero a parole nuovamente impegnati nella  R2P, basandosi su quelle convenzioni di diritto internazionale che gli Stati Uniti stessi, quando sono “minacciati” nei loro “interessi vitali” dimenticano di applicare. L’impegno morale ad intervenire si è tramutato così in una trappola per Obama; perdere la faccia o rischiare il tutto e per tutto.

Sgombro il campo da polemiche: Assad è un dittatore spietato e può aver utilizzato il Sarin contro suoi connazionali e per questo dovrebbe rispondere alla Storia, dato che i Tribunali Internazionali sono sempre piuttosto parziali nel chiamare alla sbarra “solo” certi dittatori (a cui però viene garantita giustamente l’immunità qualora siano al potere, se il diritto internazionale ha ancora un senso di reciprocità e di uguaglianza degli Stati in un contesto internazionale anarchico). Assad, tuttavia, meriterebbe una pena esemplare sul piano morale e materiale al pari di altri.

Chiuso l’inciso, ritorno al punto precedente: rischiare il tutto e per tutto o perdere la faccia. Perché si danno solo queste opzioni? Perché come insegnano Clausewitz e Von Moltke la pianificazione non fornisce certezze predittive in guerra. Non sappiamo quello che accadrà, nemmeno se si assicura la Russia (come si era fatto in Libia …) che non si estenderà  il mandato per detronizzare Assad. Il Medio Oriente è una polveriera al pari del Balcani nella prima decade del Novecento. Non dobbiamo scordarlo. Una scintilla e Libano, Iran, Israele, Turchia, Stati Uniti potrebbero trovarsi in guerra (augurandosi che si astenga la Russia dal farlo): la sicurezza che non accada tale scenario apocalittico non c’è; per questo motivo una delle due possibilità in gioco è un rischio mortale. Al di là della punizione per la strage di civili, il risultato potrebbe essere inimmaginabile.

Un’ultima considerazione: si deve far pagare Assad per quanto ha fatto, tuttavia si cercherà solo di distruggere l’arsenale chimico. Ergo, Obama ha escluso teoricamente che vorrà cacciare il dittatore siriano dalle leve del potere. Ovviamente non sarà così, qualche obiettivo militare lo si sceglierà in ogni caso per renderlo il più possibile inoffensivo. Ma anche in questo caso, Assad sarà ancora al potere e più determinato di prima assieme al suo selectorate a continuare la guerra civile, perché in ballo c’è la propria sopravvivenza e quella delle minoranze che lo sostengono da difendere anche contro “l’invasore straniero”.  Potrebbero non morire più innocenti a causa del Sarin; ho seri dubbi che non muoiano a causa di armi più convenzionali, ma ugualmente letali.

Ancora sulla Siria – Do nothing is not a strategy

Siccome tutto cambia molto rapidamente, e la portata di alcuni eventi è di peso enorme, preciso che quando scrivo siamo ancora in attesa del voto del Congresso americano sull’intervento armato in Siria, come richiesto da Obama.

Ora: l’intelligence americana, francese, britannica, turca e israeliana conferma l’uso di gas Sarin da parte di Assad nei confronti della propria popolazione. Tra cui 426 bambini, morti per l’uso di gas. E non cambierebbe nulla se fossero 4 o 4.000. E’ accettabile questa cosa? E’ accettabile tollerare una così palese violazione della convenzione di Parigi? Che messaggio arriverebbe agli altri attori regionali e globali, se fosse lasciata passare l’escalation di Bashar el Assad, sostenuto da Putin e da Khomenei?

Ho letto decine di articoli, analisi, scenari, da entrambe le parti. E non posso non pensare che la comunità internazionale debba intervenire. Umanitariamente, poiché c’è già un milione di profughi. Politicamente, ma qui le cose si fanno difficili. Chi deve intervenire? Il Consiglio di Sicurezza è bloccato dall’opposizione di Russia e Cina, quindi non se ne caverà nulla. Non ci sarà una risoluzione Onu. Ma d’altra parte non c’era neppure in Kosovo, e questo non fermò Blair, Clinton e gli altri dal salvare 100mila vite umane. Per fortuna, aggiungo.

Credo che il raid contro gli obiettivi strategici sia un passo da compiere. Per non lasciare impunito un crimine umanitario. So benissimo che non c’è un vero e proprio obiettivo politico: se ci fosse stata un’alternativa valida, il regime change sarebbe stata un’opzione sul tavolo. Ma così non è. Non sono così ingenuo da pensare che un intervento non possa scatenare un’escalation nella regione, visti i molteplici intrecci che legano Siria a Libano, Hezbollah, Iran e Russia. Ma credo che non fare nulla sia ancora peggio.

Per questo sono dalla parte di Barack Obama. Di François Hollande. Dalla parte di una sinistra che non chiude gli occhi di fronte ai massacri e che non si nasconde in un pacifismo ipocrita (“lasciamoli scannare tra di loro”) o gomblottista (“ecco l’imperialismo americano”). E sono doppiamente deluso da Emma Bonino, una che è sempre pronta a manifestare per i diritti umani, ma che quando potrebbe davvero incidere si trincera dietro all’Onu e agli scioperi della fame.